Addio a Giulio Andreotti

Aveva 94 anni. Sette volte presidente del Consiglio, simbolo della Dc
e della prima Repubblica. Niente camera ardente né funerali di Stato

È morto il senatore a vita Giulio Andreotti. L’uomo simbolo della Democrazia Crisitiana e in qualche modo della Prima Repubblica, s’è spento intorno alle 12. Negli ultimi giorni le sue condizioni di salute si erano aggravate. Non aveva partecipato alla votazione per il presidente dlela Repubblica che ha condotto alla rielezione di Napolitano, nè alla votazione del governo Letta. Politico longevissimo, sulla scena politica da più tempo della regina Elisabetta, è stato l’uomo di governo e di partito italiano più blasonato (nessun altro è stato sette volte alla guida dell’esecutivo) ed è stato sempre uno dei leader democristiani più votati. Per i suoi nemici e detrattori era «Belzebù», circondato da una fama di politico cinico e machiavellico che lui stesso, in fondo, amava coltivare. Per il senatore a vita «Non ci saranno funerali di Stato né camera ardente. Le esequie saranno celebrate nella sua parrocchia con gli stretti familiari». Lo riferisce Patrizia Chilelli, storica segretaria del presidente, al suo fianco dal 1989.  

 Nato nel 1919, è stato sette volte presidente del Consiglio, guidando anche i il governo di “solidarietà nazionale” durante il rapimento di Aldo Moro (1978-1979), e il governo della “non-sfiducia” (1976-1977), con la prima donna-ministro, Tina Anselmi, ministro del Lavoro). Numerossisimi i suoi incarichi di governo come ministro. Con tanti incarichi che ha ricoperto, fu invece bruciato nella corsa alla presidenza della Repubblica da Francesco Cossiga, e dal processo di Palermo, dove fu accusato di associazione per delinquere. Mentre la sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, lo aveva assolto perché il fatto non sussiste, la sentenza di appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all’associazione per delinquere» (Cosa Nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 fu invece assolto pienamente. 

 In più di mezzo secolo di vita pubblica, più di ogni altro governante, Giulio Andreotti è stato identificato come l’emblema di un potere che nasce e si alimenta nelle zone d’ombra. Quando Buscetta raccontò la storia del bacio a Totò Riina i colpevolisti erano di gran lunga più numerosi. Si illudevano: Andreotti, passato dall’altare alla polvere nel giro di poche ore, sfidò i giudici andando a tutte le udienze del processo che lo vedeva imputato, la testa china sui suoi appunti, contestando l’accusa fino alla sentenza definitiva di assoluzione. 

 La giovinezza nella Fuci , la scelta del papa e la polemica con De Sica  

«Nel 1919 sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io», si gloriava ultimamente. Da giovane, era un ragazzo religioso, studioso, molto serio, la schiena già lievemente incurvata e le idee chiare sul suo futuro. Unici divertimenti le partite della Roma (al vecchio stadio di Testaccio) e le corse dei cavalli all’ippodromo delle Capannelle. Si dice che fu il Papa in persona, Pio XII, a volerlo alla presidenza della Fuci , l’organizzazione degli universitari cattolici, al posto di Aldo Moro. Dopo pochi anni si ritrovò catapultato nelle stanze dei bottoni grazie all’ottima impressione che aveva fatto al leder dela Dc Alcide De Gasperi. 

Nel 1946, a 28 anni, era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con una delega particolare per lo spettacolo. La «legge Andreotti» del 1949 servì a finanziare il cinema italiano. Di quegli anni si ricorda la polemica con Vittorio De Sica, accusato dal giovane sottosegretario di aver reso «un pessimo servizio all’Italia» con il suo pessimistico film «Umberto D». 

La prima volta ministro : «il potere logora chi non ce l’ha»  

Ma l’ambizione lo spingeva verso altri palcoscenici. Nel 1954 fece il salto e diventò ministro. Il suo feudo elettorale era la campagna a sud di Roma, da dove proveniva la sua famiglia: Fiuggi, Anagni, Alatri, antichi possedimenti delle nobili famiglie capitoline, diventarono centri della sua rete elettorale e clientelare. 

Politicamente rappresentava l’ala più conservatrice e clericale della Dc, i suoi avversari interni erano i fautori del centrosinistra, come Moro e Fanfani. Ottime le sue entrature in Vaticano, estesissima la sua rete di contatti internazionali. Fu nel 1972 che riuscì ad arrivare alla presidenza del Consiglio. Lo scelsero con scarsa convinzione, per dar vita a un governo di centro dalle scarse prospettive. E infatti fu il governo più breve della storia repubblicana: solo 9 giorni, dalla fiducia alle dimissioni. Ma il nostro non si scoraggiò. 

Già allora sapeva che «il potere logora chi non ce l’ha» e che «a pensare male si fa peccato ma di solito ci si indovina». Queste due massime rappresentano la sintesi perfetta del pensiero politico andreottiano e sono ormai espressioni comuni. Per una di quelle curiose alchimie della politica che caratterizzavano la prima repubblica, fu lui, l’uomo della destra Dc, a essere chiamato a guidare i governi di solidarietà nazionale, alla fine degli anni settanta, con l’appoggio esterno del Pci. I leader della Dc avevano capito quale era la sua più grande dote: conciliare gli opposti, smussare gli angoli, digerire le difficoltà. Emblematico il suo rapporto con Craxi. 

 Craxi: «la volpe che finirà in pellicceria»  

Il leader socialista non lo vedeva di buon occhio e fui lui a coniare il soprannome di Belzebù. Andreotti era «la volpe che finirà in pellicceria». Ma qualche anno dopo dopo, di nuovo a Palazzo Chigi, Andreotti strinse un patto di ferro proprio con Craxi : erano gli anni del «caf» (dalle iniziali di Craxi , Andreotti e Forlani) e l’opposizione di sinistra lo considerava come il peggio del peggio della politica italiana. 

Il film «Il Divo» di Sorrentino lo ritrae come responsabile o complice di mille nefandezze. Lui stava per querelare, ma poi preferì lasciar correre: era più andreottiano così: forse anche perché, altra sua perla di cinica saggezza, «una smentita è una notizia data due volte…». 

Fonte:www.lastampa.it

PIERGIORGIO GOLDONI

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