Il più estremo test di durata

E’ possibile che delle Ferrari di produzione, con minime protezioni sul fondo per le strade impervie, possano fare l’intera cordigliera andina, o il giro della Cina, fino al Tibet o, ancora quello dell’India? Scopriamolo con chi lo ha fatto.

Quello che rende diverso un campione dello sport dalle altre persone, è la sua capacità di ottenere risultati per gli altri impossibili. Questo lo fa uscire dalla massa dall’anonimato portandolo, nei casi più celebri, nel mondo del mito. La Ferrari, in un certo senso, ha percorso questo stesso cammino: nata automobile tra le automobili, ha subito saputo trovare quella diversità, rispetto ai mezzi di trasporto di massa, che caratterizza i campioni. Le sue vittorie e la sua unicità l’hanno spostata nel mondo del mito e non è un caso che Enzo Ferrari amasse particolarmente le corse di durata. Se in Formula 1, infatti, a vincere è il pilota – quello che viene insignito del titolo di Campione del Mondo – insieme alla sua macchina, nelle grandi corse di durata, a vincere sono sempre state la automobili guidate da più piloti a turno.

Che questi tipi di viaggio rappresentino una forma di supercollaudo irripetibile lo si è riscontrato in moltissimi momenti in ogni continente

La 24 ore di Le Mans e Daytona, la 12 Ore di Sebring ne sono gli esempi più noti. In quelle gare il massimo sforzo per il successo è chiesto al mezzo meccanico che deve saper resistere ad uno sforzo prolungato prevalendo sugli altri impegnati nella stessa dura prova.
Il mito cui appartiene il marchio Ferrari è fatto anche di queste esperienze alle quali, per le ragioni oggettive che conosciamo, sono purtroppo venute meno quelle date dalle gare su strada: la Mille Miglia, la Carrera Panamericana, il Tourist Trophy all’isola di Man e la Targa Florio, infatti, sottoponevano le automobili ad uno sforzo ancora diverso. Uno sforzo dove, alla durata della gara si univa l’incertezza di situazioni sempre differenti, di terreni disomogenei, di imprevisti spesso pericolosi e perfino fatali.
Se le corse hanno abbandonato le strade, la Ferrari, che ha sempre dominato in quel tipo di prova, non poteva fare lo stesso.

Battezzati China 15,000 Red Miles’, Panamerican 20,000’ e ‘Magic India Discovery’, negli ultimi anni le dodici cilindri 612 Scaglietti e 599 GTB Fiorano hanno compiuto delle imprese che arrivano perfino a superare quello che si intende oggi come lo sforzo massimo di una vettura: una 24 ore. “La differenza principale è data dalle condizioni che si affrontano.

Nelle corse i piloti sono dei professionisti. Nei nostri viaggi alla guida c’erano giornalisti

 

In pista la macchina è costantemente sotto controllo, ai box c’è un team ampio che dispone di ogni possibile ricambio e la situazione è costante, al massimo cambiano le condizioni atmosferiche. In un Raid si trovano strade e passaggi impensabili per una Ferrari, e poi la polvere, la sabbia, il fango e le altitudini, siamo andati oltre i 5000 metri! Poi c’è un’altra variabile importante: nelle corse i piloti sono dei professionisti. Nei nostri viaggi alla guida c’erano giornalisti. Ottimi guidatori, certo, ma … ciascuno a suo modo!” dicono all’unisono i tre responsabili tecnici dei raid che si trovano per parlare dei avventure che hanno vissuto singolarmente. Gigi Barp, quella della Cina, la prima, Enrico Goldoni, impegnato in quella che ha portato le macchine attraverso l’intera Cordigliera Americana, dal Sud al Nord, e Andrea Costantini, garante tecnico dell’infernale viaggio che si è svolto tutto attorno all’India.
Per capire di cosa stiamo parlando, bisogna sapere che alla Ferrari piace fare le cose che portano al primato. Nel 2003, quando il mondo intero parlava di Cina nominando principalmente Pechino e Shanghai, a Maranello si è pensato di fare l’intero giro della Cina. La macchine scelte, anzi le due macchine, identiche, le 612 Scaglietti appena presentate. Gigi Barp, ai tempi, era responsabile tecnico del nuovo mercato cinese dopo anni di attività come tecnico addetto allo sviluppo delle nuove vetture ed alla loro sperimentazione su strada e all’idea di questa avventura non si tirò indietro. Anzi. Con lui, per la logistica, Gabriele Lalli *che diventerà, nel tempo, il continuatore di queste esperienze come organizzatore anche dei tour panamericano e indiano.

Barp inizia la preparazione delle auto nel modo più pragamaticamente ‘ferrariano’: le Scaglietti vanno bene come le produciamo. Hanno fatto tutti i collaudi e le prove di durata del caso, quindi non si cambia niente. Uniche modifiche: protezione sottoscocca per sassi e buche, auto leggermente alzata nelle sospensioni per affrontare strade difficili, serbatoio di scorta (non si sapeva, pensando al lungo altipiano del Tibet o al deserto del Ghobi, quanta benzina si sarebbe trovata) e centraline elettronica a più ampio spettro per sopportare benzina a basso numero di ottani ed altitudini da oltre 5000 metri. “Con la benzina il record lo abbiamo raggiunto in Sud America – aggiunge Goldoni – ci siamo trovati a dover viaggiare con le 599 con la benzina a meno di 80 ottani. Portavamo delle taniche di V Power Shell per cercare di aiutare un po’, ma c’era da arrangiarsi”.
Tornando alla Cina, dove tra le difficoltà si è anche scoperta quella che, per guidare in quel paese, occorre la patente cinese. E l’esame della patente in cinese non è propriamente alla portata di tutti… Fortuna che con l’appoggio di Fiat China (preziosissimo), non solo i membri del team, dalla coraggiosa fotografa Gabriela Noris agli operatori TV Luca Gualdi e Andrea Gioacchini, fino ai tecnici, poterono essere messi in condizione di guidare, ma soprattutto i giornalisti che si alternavano alla guida ogni 4/5 giorni, proveniendo da tutti i paesi del mondo. Quel viaggio, che durò circa 60 giorni, attraversando le zone Nord della Mongolia Interna e di seguito ad Ovest verso il Kashgar per poi raggiungere Lhasa, in Tibet, scendendo verso il Sud tropicale di Shenzen e risalire, infine, a Shanghai da dove era partito, resta ancora oggi un primato ineguagliato. Nessun costruttore ha osato tentare tanto.

E la Ferrari, con anni di vantaggio, ha potuto portare una cinquantina di giornalisti provenienti da ogni parte del mondo, a conoscere la realtà di un mondo che, come detto, quasi tutti conoscono solo attraverso le grandi città che lo collegano a noi. “Non abbiamo mai creduto di non farcela – dice Barp – ma abbiamo passato momenti terribili quando ci siamo trovati nel mezzo di una di quelle alluvioni che si leggono sui giornali. Eravamo nella stessa area dove poi sarebbe sorta la grande diga delle tre gole, le acque si erano portata via la strada ed un ponte che avremmo dovuto fare. Non avevamo una cartografia abbastanza dettagliata, non esisteva, quando il nostro interprete ha saputo che si sarebbe potuta fare una strada alternativa. Qualcosa come 400 chilometri di deviazione. Non c’era scelta. Dopo cinque ore di guida poco più che a passo d’uomo, ci troviamo davanti ad un ponticello da muli. Avrebbe tenuto? Prima di rischiare una Ferrari e i giornalisti australiani che la guidavano, tentiamo di far passare la camionetta dei ricambi. Chi sale? Sotto l’acqua è turbinosa. E l’orrido è davvero profondo. L’autista cinese dice di voler provare. Non c’è scelta. Ce la fa. Poi le Ferrari. Toccano col fondo ma, grazie al cambio F1 che non richiede gioco di frizione, scivolano miracolosamente di là.

Quando pensavamo di avercela fatta arriviamo in un paesello in cui la strada si incunea strettissima. Le Ferrari che sono larghe due metri non ci passano. Come fare?” prosegue Barp con l’emozione di chi mantiene vivissimo un ricordo. “Prendiamo le misure e percorriamo il paese. I passaggi più stretti sono esattamente di due metri. Proviamo! Quando siamo usciti dall’altra parte le fiancate erano strisciate, incredibile, era fatta. Ripartiamo e dopo qualche chilometro una nuova sorpresa. La peggiore. Anche se ha smesso di piovere il cielo resta cupo e le nuvole sono basse. Ci sembra di non vedere più la strada. Sono passate sette ore, ma non è una allucinazione. C’è solo un mare di fango che finisce, un centinaio di metri sotto, in quel famoso fiume del ponte da muli, che qui appare ancora più minaccioso.

Proviamo a passare a piedi. Si può. Il fango è una trentina di centimetri ma il fondo sembra compatto. Bisogna provare. Questa volta decido di partire io con una delle due Scaglietti. Non troppo piano per evitare di piantarmi a metà, ma neppure forte. Pensavo che avrei potuto morire se la macchina avesse cominciato a scivolare verso valle e, ad un certo punto, stava succedendo. Era partito il davanti, continuavo a spingere piano l’acceleratore per tenere almeno un’ultima speranza di controllo. Così, per magia, un avvallamento mi ha raddrizzato riportando il muso verso monte. Un colpo di gas ed ero di là. La seconda volta è stato più facile. Quando si dice l’esperienza!”. Il bello è che, arrivati ad una locanda, alle quattro del mattino dopo 18 ore di viaggio di cui 12 per fare gli ultimi 150 chilometri, tutti erano letteralmente entusiasti dell’esperienza fatta. Giornalisti per primi.

“E’ vero, è fantastico lo spirito che si crea” commenta Costantini ricordando un episodio di diverso rischio in India. “Si era formata una coda interminabile di camion, tutti fermi. Non si capiva che cosa fosse successo e nessuno dava indicazioni. Dopo un po’ decidiamo di passare sulla corsia opposta e dopo tre o quattro chilometri arriviamo all’origine del guaio: la strada è stata interrotta con barricate e pietre per una protesta dei trasportatori dovuta alle tasse doganali. Quando arriviamo si solleva un putiferio, ci vengono incontro a decine minacciosi. Ci sono bastoni. Non potevamo più andare né avanti né indietro. Non c’era via di scampo..”. E invece c’era, la più naturale: “incredibilmente quando hanno visto che c’erano due Ferrari è cambiato tutto. Si sono messi a guardarle prima con interesse, poi con entusiasmo. Dopo dieci minuti ci hanno tolto le barricate e ci hanno lasciati andare!”.

Che questi tipi di viaggio rappresentino una forma di supercollaudo irripetibile lo si è riscontrato in moltissimi momenti in ogni continente. “C’è stato un giorno, sulle Ande, che abbiamo trovato una strada che i camion avevano trasformato in quel terribile fondo chiamato Tôl ondulée. Vuol dire vibrazioni continue con l’unica via di scampo di andare forte per volare sulle buche. Il guaio è che era lunga 300 chilometri. Un inferno. Ma le 599 ne sono uscite bene”. Aggiunge Goldoni che ricorda anche un particolare curioso e inquietante: “un’altra volta ci troviamo su una strada andina, scavata nella pietra, tra Huaraz e Truillo, coi burroni come nei film di Paperino. Ma veri. E ci accorgiamo che macchine e camion hanno sul tetto delle protezioni fatte con telai di ferro e reti. Perché? Ce ne accorgiamo presto: dalle montagne si staccano spesso sassi e, a volte macigni, che piombano dall’alto.. Lì siamo stati davvero fortunati a passare senza danni”.

Gli episodi che vengono ricordati basterebbero per un libro. Ma per capire bisogna approfondire un punto sull’organizzazione di viaggi di questo tipo: da Maranello, col supporto di strutture locali e di un tour operator si fissano le tappe ed i punti di sosta. Ogni cinque o sei giorni si fissa un giorno di sosta per poter, eventualmente, recuperare il calendario fissato in caso siano intervenuti imprevisti. Gli alberghi ed i luoghi dove lasciare le macchine per la notte (sempre con la vigilanza) sono prenotati. Il gruppo è composto da una quindicina di persone. Quattro giornalisti, tre tra fotografo e operatori, tre tecnici, una guida locale e gli autisti dei mezzi per i ricambi ed i bagagli, cibi d’emergenza e pronto soccorso inclusi. Nei tratti più pericolosi per l’altitudine, in Cina e Sud America, è presente anche il medico con l’ossigeno.

Nelle giornate di sosta, che vengono studiate per essere sedi di aeroporto, si avvicendano i giornalisti: arrivano i nuovi equipaggi e partono quelli che hanno compiuto il tratto. Le tappe giornaliere hanno una lunghezza che varia a seconda delle difficoltà e delle esigenze logistiche. A volte è necessario scegliere una tappa molto lunga perché ci sono zone che per sicurezza o condizioni, non consentono una sosta notturna. La cosa sorprendente di questi tre viaggi è rappresentata dal fatto che non è mai successo di dover cambiare i programmi e non si è mai fermata una vettura.

“Si, qualche problema lo abbiamo avuto, sarebbe incredibile altrimenti. Una volta si è staccato, per le vibrazioni, un cavo di massa – ricorda Barp – macchina morta. Fortuna che eravamo in un paese. ‘Sosta per pranzo!’ Annuncia Lalli. Anche se sono le undici del mattino, tutti obbediscono. Fortuna, poi, ad aver trovato in fretta dove si era staccato”. Altri guai, un tubo idroguida lesionato, alcuni cerchi rotti, mezzo parafango strappato da un camion in India, la prudenziale sostituzione degli ammortizzatori dopo le Ande, nulla di più. La macchina di scorta sempre pronta a Maranello per essere spedita in caso di disastro, non si è mai spostata. Fantastico.

Alla fine chi ha sofferto di più sono state le persone. Non dormire fa parte del gioco, ma non mangiare è peggio. “Bisogna farsi una disciplina assoluta col cibo: solo bevande sigillate, solo cose cotte, solo frutta sbucciata personalmente” raccomandava sempre a tutti Gabriela, forte di una vita di viaggi e avventure “eppure molti ci cadevano. E così alle difficoltà del viaggio si aggiungevano quelle del pronto soccorso…bagno”.
Se le auto sono arrivate sempre in fondo perfette “a New York, quando siamo arrivati a Wall Street in una giornata di chiusura positiva della borsa (anche questo, ovviamente, non era organizzato ma si sa, come si dice, la fortuna aiuta gli audaci..), credevano che le avessimo mandate in carrozzeria, da tanto erano a posto, compresi gli interni, con la pelle neppure un po’ rovinata!”, altrettanto è stato per i protagonisti che hanno potuto usufruire di uno speciale trattamento fisioterapico: Barp, che era partito sicuramente sovrappeso, in due mesi di Cina ha perso quattordici chili, Goldoni in quasi tre di americhe, ben otto e Costantini, magro di natura, in settanta giorni in India, qualcosa come quattro. E stavano tutti benissimo anche se avevano passato giorni e giorni di ansie per la responsabilità loro affidata.

La responsabilità di assistere quelle macchine tanto importanti e preziose messe, “senza rete”, come si dice, nelle mani dei giornalisti di tutto il mondo in un test drive che pochi altri costruttori avrebbero avuto il coraggio di fare. Anzi, a pensarci bene, proprio nessuno. Complimenti.

*Gabriele Lalli èanche  un socio pilota dell’Aero Club di Modena

Fonte:http://magazine.ferrari.com

PIERGIORGIO GOLDONI

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