JFK

15 Giugno 2015

L’Airbus A330, partito da Malpensa, fermato sulla pista del Jfk. Secondo i media Usa a bordo sostanze pericolose. Due ore di stop, ispezionato tutto l’aereo e allarme rientrato.

<br /><br /><br /><br /><br />

Decine di agenti della polizia, vigili del fuoco, cani per tracciare eventuali esplosivi a bordo e ambulanze. Quando è atterrato allo scalo JFK di New York – dopo essere partito da Milano Malpensa – l’Airbus A330-200 di Alitalia s’è ritrovato circondato da misure di sicurezza imponenti. I passeggeri sono stati fatti scendere in fretta ed è stato chiesto di non portarsi i bagagli.

I controlli a bordo

Il velivolo è rimasto fermo sulla pista, senza nemmeno la possibilità di avvicinarsi alla struttura dell’aeroporto americano. Quasi due ore dopo i responsabili della sicurezza hanno dato il via libera. A bordo — secondo loro — non c’era alcun elemento di pericolo. «L’operazione è finita», è stato detto ai passeggeri. Che sono così potuti risalire a bordo per prendere le proprie cose. Non è chiaro però cosa abbia portato la polizia a bloccare l’aereo appena atterrato. Secondo alcune tv locali sul jet sarebbero saliti agenti con le tute contro le sostanze pericolose. Ma alcuni testimoni – via Twitter – hanno raccontato di presunte «minacce» contro la sicurezza del volo.La stessa compagnia aerea ha poi confermato, sempre via tweet: «Alitalia è stata informata da TSA (l’ente americano per la sicurezza del trasporti, ndr) di allarme bomba su volo AZ604 e sono scattate procedure emergenza previste».

Una catena di falsi allarmi

Da diversi giorni negli Usi i velivoli sono oggetto di telefonate minatorie. In molti casi gli agenti sono intervenuti bloccando il volo o dirottandolo in altri scali, magari meno affollati. Finora si è trattato di falsi allarmi. L’A330-200 di Alitalia era decollato alle 13.53 dalla pista di Malpensa, lo scalo di Milano. Dopo otto ore e dodici minuti – alle 16.05 locali (le 22.05 ora italiana) – ha toccato l’asfalto del JFK di New York.

Fonte:www.corriere.it


22 Novembre 2013

Jfk, a 50 anni dall’omicidio che cambiò l’America

Jfk, a 50 anni dall'omicidio che cambiò l'America

Viaggio nella città in cui fu ucciso il presidente. Tra foto ricordo, cimeli, testimoni oculari, leggende vecchie e nuove. E ferite ancora aperte.

E’ il 21 novembre del 1963, l’Air Force One decolla da Houston e porta il presidente John Fitzgerald Kennedy a Fort Worth, una piccola città attaccata a Dallas. Passa qui la sua ultima notte, all’Hotel Texas. Gli preparano la suite più bella, piena zeppa di quadri di valore, ma gli uomini della scorta non la giudicano abbastanza sicura e così scendono di un piano alla 850. Per non lasciare senza la dovuta coreografia Jfk e la moglie Jacqueline, alcuni Picasso e Van Gogh vengono spostati in tutta fretta. Il passato qui non esiste più. Le ristrutturazioni successive cambiano il volto dell’albergo, a partire dal nome: ora Hilton Fort Worth. La 850 è sparita, ma nel mezzanino e nella lobby ci sono grandi foto ricordo e il negozio interno vende memorabilia dell’epoca. Di fronte all’ingresso svetta la grande statua di bronzo di Kennedy, pezzo forte del memoriale a lui dedicato.

LO SPECIALE MULTIMEDIALE

David lavora alla reception: “Tutti quelli che arrivano sono scossi da un brivido di emozione. Anche i più giovani o gli stranieri che  non sanno cosa è successo in questo posto, appena ne vengono a conoscenza chiedono, si informano, scattano foto”. In questi ultimi giorni la febbre sale: “Il cinquantesimo anniversario ha riacceso l’interesse, c’è una sorta di  processione: in centinaia vengono a vedere dove ha dormito l’ultima volta”. E dove tiene il suo ultimo discorso prima di volare verso Dallas.

L’epicentro nella città texana è Dealey Plaza, dove si incrociano Elm e Houston Street. Qui alle 12 e 30 del 22 novembre passa il corteo presidenziale, nascosto dietro un mucchio di cartoni della finestra al sesto piano della Texas School Book Depository sta appostato Lee Harvey Oswald. Prende la mira e spara per tre volte. Ci può affacciare dallo stesso punto, gli alberi, che da sotto sembrano coprire la visuale, in realtà non sono un ostacolo: persino ad un occhio poco esperto sembra un colpo possibile. Adesso questa palazzina di mattoni rossi è il Sixth Floor Museum che un gruppo di appassionati ha messo in piedi strappandolo alla sicura demolizione: “Non avremmo potuto permetterlo, sarebbe stato come ammettere che Dallas aveva qualcosa da nascondere”, spiega ai giornali locali Lindalyn Adams, una delle fondatrici.

Sotto, dove le strade formano la piazza, è tutto come cinquant’anni fa. Cambia solo il cemento rifatto proprio in questi giorni per cancellare le X bianche che indicavano il luogo esatto della vettura di Jfk. E c’è in più il monumento che ricorda l’attentato, con le lapidi nere e la fontana bianca che fa rimbalzare i getti d’acqua. I turisti fanno la fila per entrare, i venditori ambulanti spacciano “documenti dell’epoca” e i testimoni oculari si moltiplicano con l’avvicinarsi della data storica. Oggi alle 12 e 30 qui ci sarà la cerimonia ufficiale: minuto di silenzio, campane e dal palco verranno letti i discorsi di Jfk. Un profilo basso, senza autorità, senza membri della famiglia Kennedy: “Vogliamo ricordare più la sua vita che il suo omicidio”, spiega Ruth Altshuler del comitato organizzatore.

Mikey viene da Cincinnati, ha quasi ottant’anni ed è qui con i nipoti che gli hanno sentito ripetere mille volte quel giorno: “Ero al lavoro, appena arrivata la notizia ci fecero uscire dalla fabbrica: accendemmo le televisioni e molti si misero a piangere”. Tutti quelli che sono qui si ricordano dov’erano e cosa stavano facendo, la risposta è automatica: “Certo che lo so, ero….” e via raccontando. Se lo ricorda anche Marcus che sta entrando al Texas Theatre, il cinema al 231 di Jefferson Boulevard dove Lee Harvey Oswald viene arrestato. Anche qui tutto è cambiato, le poltrone sono rosse come allora ma queste splendono di design ultramoderno. Nella lobby c’è un bel bar e al piano di sopra una galleria d’arte. Proiettano War is Hell, lo stesso film che andava in scena quel giorno e poi JFK di Oliver Stone, ovvio. I proprietari convivono con la storia, due anni fa provano pure a mettere in vendita delle magliette con la scritta: Oswald Wanted. Vanno a ruba ma le polemiche sconsigliano di ripetere l’iniziativa.

L’altro santuario è il Parkland Memorial Hospital dove, alle 13 in punto, Kennedy viene dichiarato morto dopo i tentativi disperati di salvarlo: una lapide lo ricorda. Le targhe o i cartelloni turistici sono ovunque per ricordare quella mattina che cambiò l’America: ci sono a Beckley street dove Oswald dorme la sera prima dell’attentato e qualche isolato più in là al 214 di Neely Street dove Lee vive invece con la moglie Marina e le due bimbe piccole. E’ qui davanti che lui si fa fare la famosa foto con il moschetto in mano. Ed è lungo queste strade che il viaggio nella memoria funziona meglio, perché in questi quartieri dalle case basse di legno niente o poco è cambiato.

Sembra di vederlo il poliziotto di pattuglia J. D. Tippit che ferma l’assassino di Kennedy perché corrisponde alla descrizione diramata subito dopo la sparatoria. Lo intercetta alla fine di East 10th street ma non fa in tempo a difendersi che viene ucciso a colpi di pistola. Sua moglie Marie oggi lo ricorda così: “Era un brav’uomo, un cristiano, amava me e i suoi bambini. Niente me lo riporterà indietro, che è l’unica cosa che mi interessa: ma penso sia giusto e importante ricordare”. Una targa nera, quadrata, gli rende omaggio. Il marciapiede traballa, screpolato come una ferita oggi come cinquant’anni fa.

L’omicidio di Jfk: i protagonisti di quel 22 novembre 1963

L'omicidio di Jfk: i protagonisti di quel 22 novembre 1963

John Fitzgerald Kennedy (ansa)

Jackie Kennedy subito dopo il colpo che ha ferito mortalmente suo marito.

 Lee Harvey Hoswald, l’uomo accusato di aver sparato a Kennedy (reuters)

Jack Ruby, uomo legato alla mafia, spara a Hoswald in custodia e lo uccide 

Il momento dello sparo di Ruby contro Oswald 

Lyndon B. Johnson giura come presidente degli Stati Uniti d’America immediatamente dopo la morte di Kennedy (reuters)

Marie Tippit, moglie di J.D. Tippit, il poliziotto ucciso da Oswald (secondo le ricostruzioni ufficiali) in fuga dopo gli spari contro Kennedy (ap)

Earl Warren, il giudice che ha guidato la Commissione Warren sull’omicidio Kenned.

Jim Garrison, procuratore di New Orleans, l’uomo che ha cercato di dimostrare in tribunale che l’omicidio Kennedy è stato un complotto e Oswald non è stato l’unico a sparare .

La Texas School Book Depository da dove sono partiti i colpi contro Kennedy .

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963

 

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

“Quel giorno morì la nostra infanzia”: le star ricordano l’omicidio Kennedy

Da Michael Douglas a Robert De Niro, da Anthony Hopkins a Morgan Freeman: le memorie dei veterani di Hollywood

"Quel giorno morì la nostra infanzia": le star ricordano l'omicidio KennedyMICHAEL DOUGLAS, 69 anni
“Mi vengono i brividi solo a pensarci. Ero al primo anno della University of California a Santa Barbara e stavo passeggiando in una pausa tra lezioni. La prima cosa che ho notato è stato questo silenzio. Migliaia di studenti camminavano intorno a me, e improvvisamente, silenzio. Ricordo di essermi chiesto cosa fosse successo. Poi ho visto qualcuno ascoltare una radiolina; poco dopo sono venuti a darmi questa notizia sconvolgente. Se oggi c’è la Papamobile, un motivo c’è. Quel giorno ci fu pressione da parte dei servizi Segreti che non volevano che il presidente andasse in giro con una decappottabile, ma erano tempi diversi. Ci sentivamo tutti uniti dal nostro presidente e il suo modo stupefacente di parlare lo rendeva vicino anche a noi studenti universitari, ci identificavamo in lui. E’ stata una delle grandi tragedie della nostra storia recente e purtroppo questo è un paese dove ci sono stato troppi omicidi o tentati omicidi contro i nostri presidenti”.

MORGAN FREEMAN, 76 anni
“Lavoravo in un ufficio al Garment District a New York. Siamo andati in pausa pranzo e non abbiamo fatto in tempo a rientrare che la notizia era sulla bocca di tutti, e siamo corsi ad accendere la radio. Nessuno ha più lavorato, ci siamo trascinati fuori dagli uffici riversandoci in strada. Ricordo di essere tornato a piedi a casa quel giorno. Era pieno di sguardi increduli. E’ stata una giornata incredibile. Questa è l’America e nessuno spara al presidente”.

ROBERT DE NIRO, 70 anni
“E’ una di quelle esperienze che non si dimenticano, fu la prima volta che mi sono trovato davanti a qualcosa di così piu grande di me. Avevo vent’anni credo, e stavo sulla metro a New York. Improvvisamente tutti hanno cominciato a parlare di quello che era successo, e mi sono avvicinato per ascoltare. E’ stato un colpo durissimo”.

KATHY BATES, 65 anni
“Nel ’63 avevo quindici anni. Ricordo che da scuola ci rimandarono a casa. Passai tutto il week end a guardare cosa era successo in televisione, i preparativi del funerale e le tantissime persone che andavano a portare a Kennedy l’ultimo saluto. Vidi in tv quando spararono a Oswald. Sono cresciuta con queste cose. E’ stata indubbiamente la fine della mia infanzia. La consapevolezza che una persona che stava facendo del bene al paese potesse essere assassinata era impensabile per me fino a quel momento. Ho ricordi più vividi di quando venne ucciso Martin Luther King, cinque anni dopo, nella mia città natale, Memphis. E dopo ancora Bobby Kenndey, ero in California in quel periodo, avevo appena iniziato a lavorare in una compagnia teatrale  ma mi era andata male e proprio allora lui vinse le elezioni e il giorno dopo venne ucciso. Fu un brutto momento”.

JOHN GOODMAN, 61 anni
“Ricordo che mi avevano cacciato fuori dalla classe ed ero andato su in presidenza. Proprio quando sono entrato in ufficio è arrivata la notizia da Dallas che avevano sparato al presidente. Sono sceso di corsa giù per le scale e ho riportato la notizia alla classe. Abbiamo preso un vecchio televisore e siamo andati avanti così per il resto della giornata. Ricordo persone piangere. Ero troppo piccolo per apprezzare la gravità della situazione ma ricordo aver sentito quel senso di vuoto. Quando ero piccolo avevo scritto una lettera al presidente e mi era ritornata indietro una lettera dalla segreteria, avevo otto o nove anni. Avevo scritto di politica estera, (ride) di cosa ne pensava della presenza di Mao al confine Sovietico… e Cuba, avevamo profondamente parlato di Cuba, me lo ricordo”.

ANTHONY HOPKINS, 75 anni
“Lavoravo al Leicester Phoenix Theater, in uno spettacolo di Bernard Shaw chiamato Major Barbara. Avevo uno strano ruolo, un produttore di munizioni, strane battute… ma non mi soffermerò su questo. Ci stavamo preparando per andare in scena e il direttore di scena, intento ad ascoltare una radiolina ci dice “Credo che hanno sparato al presidente Kennedy. ‘Cosa?’ ‘Si’. Stava lì, fermo in un angolo cercando di prendere il segnale. Alcuni attori vanno in scena, io non dovevo uscire per un altra decina di minuti e sono rimasto con lui. Poco dopo sentiamo  che era morto.  Nessuno del pubblico sapeva. Sono salito sul palco, ma non potevo dire nulla perché avevo parecchie battute. Poi è scattato l’intervallo e tutti sono venuti a sapere quello che era successo. Abbiamo finito lo spettacolo ma la metà degli spettatori era andata via. Fu un grande shock che accadeva 50 anni fa. Incredibile, mi sembra ieri. Ne parlai con altri attori al pub la domenica sera. Poi ci fu l’assassinio a Lee Harvey Oswald e pensai che erano tutti pazzi in America, quella era la mia visione del paese, c’era troppa violenza lì. Dopo ho capito che è un sintomo diffuso, purtroppo. Fu una tragedia mondiale. Il governo Inglese pianse la morte di Kennedy, eravamo alleati, eravamo sopravvissuti insieme alla crisi di Cuba, Kennedy era il nostro eroe. Qualche anno dopo, nel ’76, conobbi Jacqueline Kennedy ad una festa di funzionari per l’uscita di  Quell’ultimo ponte. Era con il figlio piccolo, John. E’ stato un momento commovente”.

JAQUELINE BISSET, 69 anni
“Certo che me lo ricordo, ero a Parigi, a una cena in compagnia di amici di famiglia. Rimanemmo tutti scioccati. Volevamo qualche informazione in più, ma non riuscivamo a parlare. Anche il giorno dopo ricordo un gran silenzio per le strade, le persone erano cupe e spaventate”.

CHIWETEL EJIOFRO, 36 anni
“L’omicidio di Martin Luther King e di John F. Kennedy sono stati due eventi tragici in un’era di assassinii che ha anche incluso Malcolm X e Robert Kennedy. Dopo c’è stata la corrente guerrafondaia, la guerra in Vietnam e l’idea che tutti questi eventi possano essere collegati fra loro. Alcuni di questi assassinii sono stati attribuiti a problemi razziali, altri legati alla minaccia del comunismo, ma credo che si tratti  della stessa cosa. Quando persone con  idee basate sulla correttezza e sull’uguaglianza diventano troppo potenti, si tasformano in una minaccia per il sistema”. 

Fonte:www.repubblica.it


SOCIAL NETWORKS

Seguici sui Social

Aeroclub Modena è presente sui maggiori canali Social. Per qualsiasi informazione non esitate a contattarci. Sapremo rispondere puntualmente ad ogni vostra necessità.