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11 Novembre 2016

Tragedia di Premana, l’inchiesta dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo punta anche il dito contro l’Aero club di Como.

 

Lecco, 11 novembre 2016 – Una virata di 180 gradi a bassa velocità che ha determinato lo stallo dell’aeromobile.

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La perdita di quota e l’impatto dell’ala sinistra con un abete. La collisione con la parete rocciosa con il velivolo che precipita a fondo valle e si incendia portandosi via i tre occupanti.

È la ricostruzione che l’Asnv fa degli ultimi istanti del volo del Cessna 172 idro che alle 9.20 del 9 giugno 2014 decolla dall’Aero club di Como e che venticinque minuti dopo si schianta causando la morte dell’esperto pilota P. B., 33 anni di Como, e i due passeggeri F. G. (72) e A. C. (68), marito e moglie di Abbadia che stavano godendosi dall’alto Premana e le sue montagne, regalo dei figli per la fresca pensione di papà.

L’inchiesta dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo è arrivata a chiarire alcuni aspetti fondamentali sulla tragedia. Cominciando con l’escludere alcuna avaria.

E poi che l’idrovolante «volasse a una quota molto bassa», come confermato da tutti i testimoni comparsi nella relazione. Dalla ricostruzione risulta che il Cessna 172 partito da Como e salito fino a Bellagio sia «entrato nella Valvarrone direttamente dal paese di Dervio, transitando in prossimità di Sueglio, Introzzo e della casa di feldspato di Tremenico».

L’idrovolante passa a fianco di Premana a una quota di circa 950 metri, ovvero 50 in meno dell’altitudine del «paese dei coltelli» dove F. era nato. Nella relazione si legge che il pilota poi «virava verso est seguendo la Valvarrone con l’intenzione di dirigersi verso il Pizzo dei Tre Signori, una delle località richieste dal figlio che aveva contattato l’Aero club».

Nella valle dei Forni (uno dei 12 alpeggi di Premana) «il terreno sale rapidamente fino a superare i 2100 metri in meno di sei chilometri» e soprattutto «si restringe togliendo la possibilità di garantire una via discampo».

Cosa succede allora? «Il pilota si è probabilmente accorto che la potenza disponibile del motore (anche per via della giornata caldissima con i suoi 30 gradi, 7-8 gradi superiore alle medie stagionali, ndr) non equivaleva a quella necessaria per la prosecuzione». P. B. capisce di essere in trappola e tenta un’ultima, disperata virata. Che non riesce.

Errore umano sì ma anche «inadeguata pianificazione del volo» da parte dell’Aero club di Como che non era in possesso del Coa (Certificato di operatore aereo) richiesto dall’Enac (Ente nazionale aviazione civile) per i cosidetti «voli di propaganda».

Tant’è che nell’inchiesta penale il gup si è opposto all’archiviazione avanzata dal pm Cinzia Citterio e anzi ha iscritto nel registro degli indagati proprio G. P., presidente dell’idroscalo comasco.

Fonte: www.ilgiorno.it/


12 Ottobre 2016

È una delle cose che più spesso chiediamo al motore di ricerca. Proviamo noi a darvi una risposta

di Leonard Berberi

Suggestive. A volte definite a volte sbiadite. Spesso sono lunghi rettilinei che iniziano qualche metro dietro a un aereo. Negli ultimi tempi son diventate pure oggetto di teorie pseudo-scientifiche accalappiate da qualche formazione politica e rilanciate, con molto risalto, nel pianeta social.

Ma cosa sono, davvero, le scie di condensazione? E perché le vediamo quasi sempre al passaggio di un velivolo sopra le nostre teste?
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Cosa sono e di cosa sono fatte
In inglese si chiamano «contrails» o «white trails» e sono vere e proprie nuvole artificiali: quando un velivolo è in viaggio lascia dietro di sé i fumi di scarico – esattamente come le auto – che si formano dopo la combustione dell’idrogeno contenuto nel kerosene.

Questi fumi, caldissimi, si disperdono a quota 10-12 mila metri dove le temperature possono raggiungere i 40 gradi centigradi sottozero: qui avviene la condensazione in ghiaccio del vapore acqueo presente nei fumi di scarico.

Proprio perché la «trasformazione» richiede qualche secondo, la scia lasciata dagli aerei non parte mai attaccata al jet, ma a distanza (anche cento metri dopo).

La persistenza della striscia – e di conseguenza il tasso di «nitidezza» di chi vede da terra – è determinata da quanta umidità è presente nell’ambiente.

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Come fiato umano
Per renderla ancora più chiara gli esperti usano l’esempio del fiato umano: quando fa freddo l’aria espirata si trasforma per qualche decimo di secondo in una specie di nuvoletta.

Più nel dettaglio gli scarichi del motore di un aereo contengono biossido di carbonio, ossidi di zolfo, azoto, carburante non bruciato, fuliggine e particelle di metallo, oltre al vapore acqueo.

L’altitudine di un jet, la temperatura presente all’esterno in quel momento e l’umidità dell’atmosfera definiscono lo spessore, la lunghezza e la durata delle scie.

Il doppio ruolo delle scie
Le scie hanno un doppio ruolo. Da un lato sintetizzano le condizioni meteo: una linea sottile e di breve durata significa che ad alta quota c’è bassa umidità e quindi bel tempo.

Al contrario una striscia spessa, lunga e visibile per qualche minuto evidenza un alto tasso di umidità e può indicare l’arrivare del maltempo. Dall’altro lato sono anche indicate come responsabili del riscaldamento globale.

Per avere le prove certe bisognerebbe fermare tutti i velivoli nel mondo per diversi mesi. Ma ai ricercatori è bastato prelevare i dati dell’atmosfera dopo il blocco dei cieli negli Usa l’11 e il 12 settembre 2001: anche uno stop di 48 ore ha avuto conseguenze positive sul buco dell’ozono.

Fonte: www.corriere.it/



Un mercato in crescita vertiginosa, compagnie aeree che acquistano aeroplani e aumentano profitti e grandezza, la necessità di nuovi piloti, spesso inesperti…

Gli ultimi dodici mesi sono stati i peggiori per le compagnie aeree del sudest asiatico. 

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L’8 marzo 2014 il volo numero 370 della Malaysia Airlines è scomparso dai radar, e con lui 239 persone. Poi a luglio è stata la volta del volo 17 della stessa compagnia, partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur, abbattuto sui cieli ucraini e colpito probabilmente da un missile: 283 morti.

Qualche giorno dopo il volo 222 della TransAsia Airways, che volava da Taipei alle isole Penghu, si è schiantato tentando un atterraggio, uccidendo 48 persone. Il 28 dicembre del 2014 il volo 8501 dell’Indonesia AirAsia è caduto per una tempesta: 162 morti.

Ieri l’incredibile incidente aereo nel nord di Taiwan, sul fiume Keelung, ripreso dalle telecamere degli automobilisti: 25 morti (non proprio l’ammaraggio di emergenza sul fiume Hudson a New York, che nel 2009 ridisegnò le procedure di sicurezza aerea internazionali).


Naturalmente le statistiche vengono in aiuto quando il caso sembra accanirsi contro una determinata regione geografica (e con tutti coloro che hanno paura di volare).

Il Time mette in fila statisticamente gli incidenti aerei “significanti” (numero di vittime oppure oltre un milione di dollari di danni): il risultato è che le compagnie del Pacifico avrebbero lo 0,0001 per cento di rischio in più rispetto a quelle nordamericane. Qualcosa di risibile, alemeno statisticamente.

A dicembre un lungo articolo del Wall Street Journal spiegava che il 2014, nonostante tutto, è stato un anno piuttosto sicuro per volare: “Il numero di morti in incidenti aerei quest’anno è lontano dalle 1.074 persone uccise nel 2005”, spiegava al Wsj Paul Hayes, direttore della compagnia per la sicurezza aerea Ascend, ma un numero comunque in crescita rispetto a quello degli anni 1970 e 1980, perché allora volavano molte meno persone.

Il numero dei passeggeri è un fattore statisticamente molto importante. Gli ultimi cinque sono stati gli anni d’oro delle compagnie aeree del sudest asiatico.

David Koenig and Scott Mayerowitz dell’Ap raccontano l’esplosione dell’industria aerea asiatica: ogni giorno 28 nuovi aeromobili escono dalle case produttrici – il tasso di produzione più veloce nella storia dell’aviazione commerciale, e gran parte di questi aeromobili nuovi di zecca finiscono nei cieli asiatici, dove la domanda è “insaziabile”.

L’Asia è una delle zone del mondo più popolosa e più in espansione, e la crescita economica (soprattutto quella della classe media) porta le persone a spostarsi, a viaggiare, a prendere gli aerei.

La parabola della Taiwan airlines è indicativa: nata nel 1951 come piccola compagnia di bandiera e per voli interni, nel 2011 ha fatto il botto quotandosi in borsa e, vista la domanda così alta, iniziando vari voli internazionali, soprattutto verso la Cina.

A oggi la Taiwan airlines ha in cantiere talmente tanti nuovi ordini che potrebbe raddoppiare la sua flotta entro i prossimi cinque anni. La sfida per le piccole compagnie aeree – soprattutto per le nuove low cost come l’Air Asia, che continua a mettersi nei guai – è quindi non tanto quella di acquistare nuovi aeroplani, sempre più grandi e capienti, ma quella di avere qualcuno che li sappia pilotare, ovvero: addestrare i piloti.


Brendan Sobie, analista del Centro per l’Aviazione di Sydney, ha detto nel dicembre scorso all’Ap che ci sono 1.600 aeromobili che operano nel sudest asiatico, e che l’Asia è l’unica regione del mondo in cui ci sono un tot di aeromobili in servizio, e lo stesso numero in ordinazione.

Ma “per ogni nuovo aereo, le compagnie aeree hanno bisogno di assumere e formare almeno 10-12 piloti, a volte di più, secondo gli esperti del settore.

La cifra è così alta perché gli aerei spesso volano per tutto il giorno e la notte, sette giorni su sette, mentre i piloti hanno bisogno di sonno e di giorni di riposo. Secondo Boeing la regione dell’Asia-Pacifico avrà bisogno di 216.000 nuovi piloti nei prossimi vent’anni”, e la maggior parte verranno da altre regioni del mondo, il che farà dell’Asia il 40 per cento della domanda globale di piloti.

Ieri l’International Air Transport Association ha pubblicato il suo report market sull’analisi dei dati del dicembre 2014. L’incremento maggiore di traffico aereo l’hanno avuto le compagnie aeree dell’Asia-Pacifico e del medio oriente.

Le compagnie aeree di queste regioni hanno il 46 per cento del trasporto aereo totale. La crescita del volume totale di voli in Asia è trainata dai paesi emergenti (appunto Indonesia, Malesia, Taiwan, etc): +5,4 per cento nel 2014, rispetto al -1 per cento del 2013

Fonte: www.ilfoglio.it/


30 Gennaio 2016

Negli anni Cinquanta erano rettangolari. Poi, dopo una serie di incidenti nei quali morirono diverse persone, arrivò la nuova forma

finestrino
Lo preferisce la maggioranza dei viaggiatori: il posto vicino al finestrino sull’aereo. Già, perché la vista è più piacevole. Sedersi vicino al finestrino, aveva raccontato qualche tempo fa il pilota di linea e scrittore Mark Vanhoenacker, «è come mettersi fuori da un bar di una strada affollata, solo che al posto della gente puoi osservare le montagne e gli oceani». Tuttavia, a differenza di un bar, durante il viaggio ad alta quota ci troviamo di fronte ad un finestrino dalla forma rotonda. Il motivo? La domanda è interessante. Ecco la risposta.

L’era dei jet
Nei primi anni ‘50, grazie all’ascesa dei motori a reazione e dei sistemi di pressurizzazione della cabina, gli aerei iniziarono a volare a quote sempre più alte, oltre i 10.000 metri. I vantaggi erano molteplici: gli aeroplani necessitavano di meno carburante a causa della ridotta pressione dell’aria e c’erano meno turbolenze a bordo, spiegano gli esperti di Real Engineering in un videopubblicato su YouTube. A quel tempo, l’ingegneria aerospaziale stava facendo passi da gigante con gli apparecchi che andavano sempre più veloci (fino a 740 km/h) e riuscivano a trasportare un numero sempre maggiore di passeggeri. Nasceva l’era dei jet anche nel settore del trasporto di linea: un velivolo Comet, prodotto dall’azienda britannica de Havilland, fu il primo aereo di linea con motori turbogetto a compiere nel 1951 un volo sulla tratta Londra-Johannesburg. La maggior parte degli apparecchi decollava e atterrava in sicurezza. Tuttavia, nel 1953 ci fu una serie tragica di eventi che coinvolsero due aerei: la fusoliera scoppiò letteralmente in aria, uccidendo 56 persone. Quale fu la causa? I finestrini.

La forma smussata
All’epoca, i finestrini sugli aerei avevano una forma rettangolare, con gli angoli a 90 gradi. E, per dirla semplice, dove c’è un angolo c’è anche un punto debole. I finestrini quadrati dovevano infatti sopportare sollecitazioni fino a tre volte quello delle altri parti della struttura, mettendoli a serio rischio di rotture e crepe. Ecco perché gli angoli vennero successivamente smussati e fu introdotto il finestrino con la forma tondeggiante, l’oblò.

 

 

Fonte: www.corriere.it/scienze/


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