Il fenomeno Bolt: “La gente può parlare ma quando conta non sbaglio”

E a Londra esplode la festa caraibica di Brik Lane

Quando ho corso la batteria ho pensato: «Posso farcela. La gente può parlare quanto vuole ma quando arrivano le gare che contano io non sbaglio. Ora sono felice». Firmato Usain dentro uno stadio in estasi.

Un lampo lungo nove secondi e sessantatre centesimi e a Brik Lane, quartiere multietnico di Londra, sono partiti i festeggiamenti. Musica reggae, balli caraibici, sullo sfondo le vecchie fabbriche coperte di graffiti, una sverniciata di giallo, verde e nero sulla “smoke London”. L’hanno ribattezzata Jamaica Town, con il contributo non solo morale dello sponsor di Bolt. Ma anche se avesse vinto Yohan Blake, e nonostante l’infortunio di calimero Powell, sarebbe stata una notte speciale, a 50 anni esatti dall’indipendenza della Giamaica dal Regno Unito. Ai Giochi del 1948 Kingston era ancora una succursale dell’Impero e nella velocità i pionieri giamaicani dell’oro si chiamavano Mckenley e Wint. Da allora sono loro i padroni dello sprint e nessun interregno ha mai rovesciato lo stato delle cose.

Per quale motivo un Paese con poco più di tre milioni di abitanti è sceso quasi 50 volte sotto i 9”85 nei 100 metri, con Carter, Mullings, Blake, Powell e Bolt, mentre gli Stati Uniti, che hanno una popolazione di 300 milioni di abitanti e una tradizione solidissima nell’atletica, ci sono riusciti una ventina di volte? Non è una questione di uomini e donne, la velocità non fa distinzioni di sesso: ventiquattr’ore prima l’impresa di ripetersi era riuscita a Shelley Ann Fraser Pryce. A quattro anni da Pechino, non solo comandano i giamaicani. Ma gli stessi giamaicani di allora. «Nostra madre ci faceva fare le commissioni di corsa. Sputava a terra e ci diceva che dovevamo tornare indietro prima che lo sputo si asciugasse», ha raccontato Linford Christie in un documentario della Cnn. Christie ha vinto un titolo olimpico nel ‘92 per i colori britannici ma è nato in Giamaica, come Donovan Bailey (olimpionico nel ‘96 in quota Canada) e il famigerato Ben Johnson, anche lui naturalizzato canadese, il più famoso caso di doping dello sport all’indomani dello stupefacente, in tutti i sensi, successo di Seul.

Nè lo sputo della mamma di Christie nè le alchimie di Johnson spiegano il fenomeno Giamaica, non quanto il sistema ferocemente competitivo delle scuole di atletica che sorgono sull’isola. La rivalità in tutte le discipline di base è una prima selezione dei futuri talenti. I Boys and Girls Championships di Kingston rappresentano la fase due, quella della scrematura definitiva. Ogni anni circa 30 mila persone accorrono allo stadio nazionale per veder competere la meglio gioventù. Il programma è di quattro giorni, l’audience televisiva delle gare trasmesse in diretta intorno al milione di persone.

«Ti getti alle spalle per sempre la paura di correre», ha spiegato Bolt. Lui è originario di Trelawny, nel Nord-Ovest del Paese, un grumo di povertà e una benedizione della velocità. Lì è nato Johnson, da lì arriva Veronica Campbell Brown, terza a Londra nei 100 metri. Non c’è l’acqua corrente e i ragazzi fanno chilometri a piedi portando secchi pesanti sulle spalle. Un allenamento un po’ brutale ma efficace. La natura, il dna, l’abbondanza di frutta, verdura e legumi, la povertà diffusa, la cultura rurale, tutto questo rappresenta un terreno fertile per i velocipedi giamaicani. «Siamo cresciuti in un Paese dove i primi amici sono gli animali e le prime corse le fai con le capre», magari Blake esagera ma rende l’idea.

Eppure senza qualcuno in grado di modellare il fisico e il talento, la Giamaica sarebbe un’isola di promesse, non di campioni. Glen Mills allena Bolt e Blake, i grandi rivali di Londra, per 22 anni ha lavorato nel ranghi federali, è stato il deus ex machina di 71 medaglie mondiali e 35 olimpiche, comprese le ultime due. Ha fatto di Bolt un fuoriclasse, scartando lo splendido pelandrone. I suoi ragazzi sono sbruffoni, spesso esagerati, forse anche questo fa parte del mix vincente. Ma dietro un fenomeno non c’è mai l’improvvisazione.

Fonte:www3.lastampa.it/sport

PIERGIORGIO GOLDONI

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