Hulk Hogan

12 Aprile 2014

È stato un volto notissimo del wrestlig made in Usa a cavallo degli anni ’80-’90, rilanciato in Italia dalle appassionanti telecronache di Dan Peterson. Il suo ingresso sul ring era annunciato dalle note di “Unstable” di Jim Johnston: batteria e chitarra elettrica che entusiasmavano i fan.

“The Ultimate Warrior”è stato a lungo nell’olimpo di questi atleti-attori, insieme ad Hulk Hogan, “Macho Man” Randy Savage, Bret “Hit Man”Hart, “The Undertaker”, Andre de Giant, per fare solo qualche nome. James Hellwig – che aveva voluto cambiare il suo cognome in “Warrior”, identificandosi ancor di più con il personaggio a cui aveva dato vita sul ring – è morto a soli 54 anni di età, proprio pochi giorni dopo essere stato inserito nella Hall of Fame della World Wrestling Entertainment.

Le cause della morte non sono state rese note, ma secondo alcuni media statunitensi avrebbe avuto un attacco cardiaco all’esterno di un hotel in Arizona, mentre andava a prendere la sua auto insieme alla moglie.

Sempre un attacco cardiaco aveva portato via circa tre anni fa anche Randy Savage, (MACHO MAN )altro protagonista del ring di quegli anni.

The Ultimate Warrior aveva inizato la sua carriera di wrestler nel 1987: capelli lunghi, fisico da culturista, volto dipinto e nastrini sopra i bicipiti, quasi a richiamare un guerriero indiano.

Raggiunse l’apice della sua carriera il 1° aprile 1990, quando allo SkyDome di Toronto, in Canada, conquistò il titolo di campione del mondo battendo Hulk Hogan durante Wrestlemania VI.

GUARDA VIDEO

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=kVk69NNWhwc

Proprio il suo rivale sul ring – il principe dei wrestler a stelle e strisce – è stato tra i primi a esprimere il suo cordoglio per la scomparsa dell’ex avversario. «Riposa in pace Warrior. Solo amore. Hulk Hogan», ha scritto in un tweet.

Fonte:www.ilsole24ore.com


12 Aprile 2014

C’è una scena in particolare, dentro quel capolavoro che è The Wrestler di Aronofsky, capace di sintetizzare perfettamente il legame viscerale che unisce un wrestler – ossia uno che passa la vita a farsi di steroidi, carbonizzassi di lampade, tingersi i capelli e auto infliggersi tagli sulla fronte – al suo pubblico.
Un Mickey Rourke “bruised and battered” come non mai proclama agli astanti del suo ultimo incontro un discorso molto simile alle parole di James Hellwig nella sua apparizione a Raw del 5 aprile, in procinto di essere introdotto nella Hall of Fame.

Poi Randy the Ram si butta e il film finisce. Pochi giorni fa, davanti a un hotel qualsiasi fra milioni di hotel qualsiasi, James Hellwig, aka The Ultimate Warrior, muore e non sapremo se abbia mai avuto una sua ipotesi sul finale del film.

Esistono nell’uomo forze, conflitti, gioie, angosce: la lotta li esprime, li libera, li brucia, senza permettere mai loro di distruggere nulla. Nella lotta l’uomo vive la battaglia fatale per la vita, ma questa lotta è resa distante dallo spettacolo, ridotta a pura forma, privata dei suoi effetti, dei pericoli, delle azioni vergognose. Perde così i suoi aspetti inquietanti ma non lo splendore o quantomeno i significati. E quando lo splendore tramonta, la forza intimidatoria si trasforma in lentezza e affanno, accade a volte che all’eroe venga concesso di smascherarsi, di ammettere per la prima volta di non essere invincibile, e forse di essere più  debole di tutti noi, più schiavo di noi della sua stessa gimmick. In quel momento il lottatore si dichiara uomo e tutte le sue sconfitte gli sono perdonate.

Molti di chi, come me, fanno parte generazione X e non hanno mai fatto a botte seriamente, quando sentono parlare di trash alla vista di mezza puntata di Geordie Shore rimpiangono i tempi in cui Dan Peterson commentò per primo le gesta epiche di un tempo in cui il wrestling, al pari della prima goticissima serie dell’Uomo tigre, non era solo finzione spettacolare. Il wrestling lo scoprimmo nel pieno dell’era gimmick – termine con cui si definisce il “personaggio” interpretato dal wrestler – periodo in cui, sostenuto dal boom della tv via cavo, il pro-wrestling muta da fenomeno controllato da federazioni regionali ad un sistema dominato da due grandi federazioni governate alla stregua di macchine da intrattenimento. Nella WWF di quegli anni, poi costretta da una causa degli animalisti a ribattezzarsi WWE, ogni atleta si presenta come un personaggio stereotipato, facilmente riconoscibile e caratterizzante, simbolo di una professione (il poliziotto, l’esattore delle tasse, il barbiere, l’omosessuale, il pastore, il meccanico, il modello) o di un ideale (l’uomo da un milione di dollari, lo sciupafemmine, il patriota).

Per chi non ci sia passato il 1987 è l’anno in cui Mike Tyson era invincibile, Eddie Murphy sparava risate come palle da baseball, Don Johnson era l’uomo più cool del pianeta e Michael Jackson non sembrava ancora un alieno. Wayne Gretzky, Magic Johnson e Larry Bird erano di fatto i re dello sport. Ronald Reagan aveva il destino di due mondi scritto su un pulsante e i bambini stavano sempre giocando a Intellevision e Atari.
In questo scenario nel bel mezzo di una sera infrasettimanale entra in scena il guerriero, l’uomo mascherato, il selvaggio, un personaggio inclassificabile fra buoni e cattivi, dalle origini sconosciute e incapace di esprimersi. Spazza via tutto e tutti dal ring, fa saltare il banco. In pochi anni il suo repertorio fatto di sole prove di forza bruta – imbarazzanti rispetto all’atletismo acrobatico di molti campioni odierni – spopola fino ad intaccare e spodestare il regno dell’icona fra le icone del wrestling pro, l’immortale Hulk Hogan, che proverà ad arginarne l’escalation sul ring e non.

Cinque anni dopo the Ultimate Warrior se ne andrà, incapace di accettare regole e compensi, al culmine di una carriera che potrebbe tranquillamente issarlo a leader carismatico della decade successiva. Poi i tentativi di ritorno, i feud disastrosi contro altri lottatori per cui il tempo inizia a presentare un conto sempre più salato, il nuovo ritiro e un primo rifiuto, nel 2012, di entrare a far parte della Hall of Fame. Fino a una morte non proprio imprevedibile eppure scioccante, come accade sempre per qualcuno che ha rapito per qualche ora l’adrenalina di alcuni milioni di persone ai quattro angoli del mondo.

In mezzo tutto quello che fa anche di Randy the Ram un anti eroe, un figlio di puttana che alla fine nessuno di noi si sente di condannare. Matrimoni falliti, contratti stracciati, egoismi fuori tempo e il proverbiale tentativo in politica, nella galassia sconfinata della destra cristiana, fra deliranti prese di posizione omofobe e dichiarazioni suprematiste. Sullo sfondo un’America che si disintegra e ricompone milioni di volte, dove l’hype del Guerriero ha lasciato il posto al compatimento che si riserva ai rottami di un passato mitico. Un universo in cui, soprattutto, nuovi personaggi si contendono la ribalta, più spettacolari, più belli, più tonici, e quasi sempre politicamente corretti.

Zero tossici, zero picchiatori di mogli, zero pezzi di carne maciullata, quelli se li è presi tutti l’extreme fighting, la lotta all’ultimo sangue vera, dove a volte spunta anche un ex wrestler, a farsi più o meno massacrare da colpi veri, questa volta.

Oggi sappiamo che una delle più grandi prove di forza di un eroe del wrestling consiste nel riuscire misteriosamente a catalizzare l’attenzione anche dopo anni di anonimato, silenzio, semi ritiro. Non parliamo di atleti leggendari, non di pugili sfortunati, non di ciclisti, ma di prodotti di un’America  plasticona e white trash che in altre sedi molti di noi, anni dopo aver emulato le finisher del proprio wrestler preferito, hanno condannato e rinnegato in nome della civiltà, del progresso, della pace nel mondo, dell’obamismo, finendo lo stesso a mangiare Triple Whopper in Stazione Centrale con la speranza di non essere riconosciuti.

Poi un lottatore crepa e torniamo tutti a ricordare che veniamo anche un po’ da lì, da un’epoca in cui i nomi dei wrestler non li sapevamo nemmeno pronunciare bene e i costumi delle lottatrici erano molto meno sgambati dei body di American Apparel ma ci arrapavano lo stesso. E l’America è ancora lì con gli eccessi, le tamarrate e gli eroi di gomma messi in fila come buste di carne essiccata nel mini market di un Texaco.

Sembra una barzelletta ma se della morte di un ex lottatore ne hanno parlato tutti non è solo per amarcord. Ci fu qualcosa nel mare della banalità anni ’80, quando dire ‘non ho la televisione’ non era ancora entrato nelle priorità di ogni cittadino modello, qualcosa che ci colpì, che ci toccò come ci toccava il chiodo di un metallaro ad un concerto di Baglioni. Come ci avrebbe colpito un indio ad un ballo delle debuttanti. Come ci dopavano le meches di Nick Rhodes e le Più Gusto.

Occorre rileggere il Barthes de Il mondo del catch per provare a capire: ”Nell’osceno quadrato del ring quei corpacci ipermaschilistici danno vita a una pantomima teatrale, al trionfo tardomoderno e retoricissimo del kitsch, fatto di passioni recitate e non vissute, di finti dolori, di sconfitte enfatiche quando il corpone del lottatore giace come un manichino pantagruelico sotto il gomito del vincitore, osannato da una folla in delirio, plaudente il trionfo della giustizia, o della sordida vendetta in maschera“.

I bacchettoni lo giudicano uno spettacolo violento ma, ci ricorda Barthes, “solo l’immagine è nel campo del gioco, e lo spettatore non desidera affatto la sofferenza reale del lottatore, gusta solo la perfezione di un’iconografia“. Quei grandi corpi che crollano a terra o affondano nelle corde agitando le braccia danno luogo a figure antiche, all`ostensione degli antichi miti della sofferenza e dell`umiliazione pubblica, mentre il vincitore issa se stesso, ruggendo, al centro dell`arena, incarnando in se medesimo il mito permanente di Rocambole, di Batman, di Scapin, del grande protagonista significativo come un`entità classica”

Per un immaginario over 30 che, inesorabilmente, si sia visto costretto ad accettare la morte di dio, l’inesistenza di Babbo Natale, la tossicodipendenza di Macaulay Caulkin, la crisi creativa di Bret Easton Ellis e molto altro la morte di un Ultimate Warrior è il chiodo sulla bara di un’epoca che ebbe molto di colorato, farsesco, barocco americano, in una parola televisivo.
I cuori dei lottatori anabolizzati scoppiano presto ma il loro spirito rivive, in ogni parte del mondo occidentalizzato.
Lontano dalle luci respira, come un gremlin.

Alessandro Raina

Pubblicato

aprile 11, 2014


SOCIAL NETWORKS

Seguici sui Social

Aeroclub Modena è presente sui maggiori canali Social. Per qualsiasi informazione non esitate a contattarci. Sapremo rispondere puntualmente ad ogni vostra necessità.