5 ottobre 1962, arrivano i Beatles e accendono i Sixties

Andrea Malaguti corrispondente da londra

I favolosi Sixties cominciarono con quasi tre anni di ritardo rispetto al calendario gregoriano. Il genetliaco della nuova era fu infatti venerdì 5 ottobre 1962, San Beatles, quando nei negozi di Liverpool uscì il primo singolo della rivoluzione predicata dai Fab Four: «Love me do, you know I love you, I’ll always be true». Non esattamente John Keats, ma insospettabilmente efficace e, soprattutto, liberatorio. La colonna sonora dell’incipiente terremoto planetario. 

 La Gran Bretagna di allora – esattamente cinquant’anni fa – era un’Isola severa, che considerava l’austerità come una specie di orgia alla rovescia, nella quale si perveniva lentamente all’esaurimento della sostanza vitale. Harold MacMillan era il primo ministro e l’intera esistenza – non solo la tv – era in bianco e nero.  

Finché la musica non si prese la briga di cambiare la Storia, sprigionando un’energia destinata a sconvolgere legami e costumi che sembrava impossibile infrangere e che invece si sciolsero con una rapidità sbalorditiva. 

«Love Me Do» – capace di piazzarsi al diciassettesimo posto di una hit parade guidata ancora da Cliff Richard – fu l’invisibile testimone che una generazione in ritirata decise di passare a quella successiva, evidentemente pronta ad affrontare le montagne russe di una modernità in cui i Beatles erano una parte simbolicamente centrale ma non esclusiva. Pochi mesi e nulla sarebbe più stato come prima. 

L’avvenimento apparentemente più importante di quel venerdì 5 ottobre in ogni caso non fu musicale ma cinematografico. La premiere di «Dr. No», il battesimo di 007, occupò le prime pagine dei giornali e le immagini di Ursula Andress in bikini fecero il giro del Pianeta. Nascevano le Bond Girl, donne mozzafiato destinate a scandalizzare i bigotti, rimettere in circolazione gli ormoni sotto controllo di maschi imbalsamati e a riconsegnare alle donne un potere ipnotico che superava abbondantemente l’impatto innegabile di fisici da fumetto. Mary Quant e le sue minigonne erano dietro l’angolo.  

In Inghilterra solo quattro studenti su cento avevano accesso all’università – e tre erano maschi – le case costavano mediamente 2.670 sterline (48 mila di oggi) e la macchina culto era la Ford Cortina, un giochino da 591 sterline (10 mila sterline di oggi). Poca droga e ancora meno Lsd. Sesso e rock’n’roll con moderazione. Ma se la portata di quello che stava per succedere era inimmaginabile, quello che c’era (la Guerra fredda, le spie, ma anche un Elvis Presley improvvisamente omologato e risucchiato dal sistema con film di serie B di cui era improbabile protagonista) da un lato faceva paura, dall’altro chiariva la necessità di imboccare strade diverse. Pena l’autodistruzione. Un eccesso?  

L’11 ottobre del 1962, a Roma, papa Giovanni XXIII si affacciava al balcone di piazza San Pietro per annunciare l’apertura del Concilio Vaticano II, voluto non per proclamare nuovi dogmi ma per interpretare i segni del tempo. «Qui tutto il mondo è rappresentato, si direbbe che persino la Luna si è affrettata a guardare. Tornando a casa troverete i vostri bambini. Date loro una carezza e dite: questa è la carezza del Papa».  

Predicava armonia. Ce n’era bisogno. Perché molti genitori non erano così certi che il futuro sarebbe stato possibile. Il 22 ottobre John Fitzgerald Kennedy – che tre mesi prima aveva pianto la strana morte di Marilyn Monroe – apparve in tv per annunciare che l’Unione Sovietica aveva installato 140 testate nucleari a Cuba, vicino a San Cristobal, e che le navi americane avevano «messo in quarantena» l’isola. La crisi era cominciata sette giorni prima e ne sarebbe durati altri sei. L’idea di essere vaporizzati dall’olocausto atomico non era poi così bizzarra. 

Finché Kruscev, considerata la fermezza di Washington e ottenute alcune concessioni sulla Turchia, decise di tornare a casa. La musica dei Beatles riprese prepotentemente il centro della scena. «Love me do», allora, «Whoa, oh, love me do». Nella consapevolezza che l’amore è uno dei rari punti dove il segreto, la novità e il sacro, trovano la loro sintesi perfetta e ballare e reinventarsi il destino è meglio che sparire per sempre.

Fonte:www.lastampa.it

PIERGIORGIO GOLDONI

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