50’anni

22 Novembre 2013

Jfk, a 50 anni dall’omicidio che cambiò l’America

Jfk, a 50 anni dall'omicidio che cambiò l'America

Viaggio nella città in cui fu ucciso il presidente. Tra foto ricordo, cimeli, testimoni oculari, leggende vecchie e nuove. E ferite ancora aperte.

E’ il 21 novembre del 1963, l’Air Force One decolla da Houston e porta il presidente John Fitzgerald Kennedy a Fort Worth, una piccola città attaccata a Dallas. Passa qui la sua ultima notte, all’Hotel Texas. Gli preparano la suite più bella, piena zeppa di quadri di valore, ma gli uomini della scorta non la giudicano abbastanza sicura e così scendono di un piano alla 850. Per non lasciare senza la dovuta coreografia Jfk e la moglie Jacqueline, alcuni Picasso e Van Gogh vengono spostati in tutta fretta. Il passato qui non esiste più. Le ristrutturazioni successive cambiano il volto dell’albergo, a partire dal nome: ora Hilton Fort Worth. La 850 è sparita, ma nel mezzanino e nella lobby ci sono grandi foto ricordo e il negozio interno vende memorabilia dell’epoca. Di fronte all’ingresso svetta la grande statua di bronzo di Kennedy, pezzo forte del memoriale a lui dedicato.

LO SPECIALE MULTIMEDIALE

David lavora alla reception: “Tutti quelli che arrivano sono scossi da un brivido di emozione. Anche i più giovani o gli stranieri che  non sanno cosa è successo in questo posto, appena ne vengono a conoscenza chiedono, si informano, scattano foto”. In questi ultimi giorni la febbre sale: “Il cinquantesimo anniversario ha riacceso l’interesse, c’è una sorta di  processione: in centinaia vengono a vedere dove ha dormito l’ultima volta”. E dove tiene il suo ultimo discorso prima di volare verso Dallas.

L’epicentro nella città texana è Dealey Plaza, dove si incrociano Elm e Houston Street. Qui alle 12 e 30 del 22 novembre passa il corteo presidenziale, nascosto dietro un mucchio di cartoni della finestra al sesto piano della Texas School Book Depository sta appostato Lee Harvey Oswald. Prende la mira e spara per tre volte. Ci può affacciare dallo stesso punto, gli alberi, che da sotto sembrano coprire la visuale, in realtà non sono un ostacolo: persino ad un occhio poco esperto sembra un colpo possibile. Adesso questa palazzina di mattoni rossi è il Sixth Floor Museum che un gruppo di appassionati ha messo in piedi strappandolo alla sicura demolizione: “Non avremmo potuto permetterlo, sarebbe stato come ammettere che Dallas aveva qualcosa da nascondere”, spiega ai giornali locali Lindalyn Adams, una delle fondatrici.

Sotto, dove le strade formano la piazza, è tutto come cinquant’anni fa. Cambia solo il cemento rifatto proprio in questi giorni per cancellare le X bianche che indicavano il luogo esatto della vettura di Jfk. E c’è in più il monumento che ricorda l’attentato, con le lapidi nere e la fontana bianca che fa rimbalzare i getti d’acqua. I turisti fanno la fila per entrare, i venditori ambulanti spacciano “documenti dell’epoca” e i testimoni oculari si moltiplicano con l’avvicinarsi della data storica. Oggi alle 12 e 30 qui ci sarà la cerimonia ufficiale: minuto di silenzio, campane e dal palco verranno letti i discorsi di Jfk. Un profilo basso, senza autorità, senza membri della famiglia Kennedy: “Vogliamo ricordare più la sua vita che il suo omicidio”, spiega Ruth Altshuler del comitato organizzatore.

Mikey viene da Cincinnati, ha quasi ottant’anni ed è qui con i nipoti che gli hanno sentito ripetere mille volte quel giorno: “Ero al lavoro, appena arrivata la notizia ci fecero uscire dalla fabbrica: accendemmo le televisioni e molti si misero a piangere”. Tutti quelli che sono qui si ricordano dov’erano e cosa stavano facendo, la risposta è automatica: “Certo che lo so, ero….” e via raccontando. Se lo ricorda anche Marcus che sta entrando al Texas Theatre, il cinema al 231 di Jefferson Boulevard dove Lee Harvey Oswald viene arrestato. Anche qui tutto è cambiato, le poltrone sono rosse come allora ma queste splendono di design ultramoderno. Nella lobby c’è un bel bar e al piano di sopra una galleria d’arte. Proiettano War is Hell, lo stesso film che andava in scena quel giorno e poi JFK di Oliver Stone, ovvio. I proprietari convivono con la storia, due anni fa provano pure a mettere in vendita delle magliette con la scritta: Oswald Wanted. Vanno a ruba ma le polemiche sconsigliano di ripetere l’iniziativa.

L’altro santuario è il Parkland Memorial Hospital dove, alle 13 in punto, Kennedy viene dichiarato morto dopo i tentativi disperati di salvarlo: una lapide lo ricorda. Le targhe o i cartelloni turistici sono ovunque per ricordare quella mattina che cambiò l’America: ci sono a Beckley street dove Oswald dorme la sera prima dell’attentato e qualche isolato più in là al 214 di Neely Street dove Lee vive invece con la moglie Marina e le due bimbe piccole. E’ qui davanti che lui si fa fare la famosa foto con il moschetto in mano. Ed è lungo queste strade che il viaggio nella memoria funziona meglio, perché in questi quartieri dalle case basse di legno niente o poco è cambiato.

Sembra di vederlo il poliziotto di pattuglia J. D. Tippit che ferma l’assassino di Kennedy perché corrisponde alla descrizione diramata subito dopo la sparatoria. Lo intercetta alla fine di East 10th street ma non fa in tempo a difendersi che viene ucciso a colpi di pistola. Sua moglie Marie oggi lo ricorda così: “Era un brav’uomo, un cristiano, amava me e i suoi bambini. Niente me lo riporterà indietro, che è l’unica cosa che mi interessa: ma penso sia giusto e importante ricordare”. Una targa nera, quadrata, gli rende omaggio. Il marciapiede traballa, screpolato come una ferita oggi come cinquant’anni fa.

L’omicidio di Jfk: i protagonisti di quel 22 novembre 1963

L'omicidio di Jfk: i protagonisti di quel 22 novembre 1963

John Fitzgerald Kennedy (ansa)

Jackie Kennedy subito dopo il colpo che ha ferito mortalmente suo marito.

 Lee Harvey Hoswald, l’uomo accusato di aver sparato a Kennedy (reuters)

Jack Ruby, uomo legato alla mafia, spara a Hoswald in custodia e lo uccide 

Il momento dello sparo di Ruby contro Oswald 

Lyndon B. Johnson giura come presidente degli Stati Uniti d’America immediatamente dopo la morte di Kennedy (reuters)

Marie Tippit, moglie di J.D. Tippit, il poliziotto ucciso da Oswald (secondo le ricostruzioni ufficiali) in fuga dopo gli spari contro Kennedy (ap)

Earl Warren, il giudice che ha guidato la Commissione Warren sull’omicidio Kenned.

Jim Garrison, procuratore di New Orleans, l’uomo che ha cercato di dimostrare in tribunale che l’omicidio Kennedy è stato un complotto e Oswald non è stato l’unico a sparare .

La Texas School Book Depository da dove sono partiti i colpi contro Kennedy .

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963

 

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

Omicidio Kennedy, le prime pagine su quel 22 novembre 1963  

“Quel giorno morì la nostra infanzia”: le star ricordano l’omicidio Kennedy

Da Michael Douglas a Robert De Niro, da Anthony Hopkins a Morgan Freeman: le memorie dei veterani di Hollywood

"Quel giorno morì la nostra infanzia": le star ricordano l'omicidio KennedyMICHAEL DOUGLAS, 69 anni
“Mi vengono i brividi solo a pensarci. Ero al primo anno della University of California a Santa Barbara e stavo passeggiando in una pausa tra lezioni. La prima cosa che ho notato è stato questo silenzio. Migliaia di studenti camminavano intorno a me, e improvvisamente, silenzio. Ricordo di essermi chiesto cosa fosse successo. Poi ho visto qualcuno ascoltare una radiolina; poco dopo sono venuti a darmi questa notizia sconvolgente. Se oggi c’è la Papamobile, un motivo c’è. Quel giorno ci fu pressione da parte dei servizi Segreti che non volevano che il presidente andasse in giro con una decappottabile, ma erano tempi diversi. Ci sentivamo tutti uniti dal nostro presidente e il suo modo stupefacente di parlare lo rendeva vicino anche a noi studenti universitari, ci identificavamo in lui. E’ stata una delle grandi tragedie della nostra storia recente e purtroppo questo è un paese dove ci sono stato troppi omicidi o tentati omicidi contro i nostri presidenti”.

MORGAN FREEMAN, 76 anni
“Lavoravo in un ufficio al Garment District a New York. Siamo andati in pausa pranzo e non abbiamo fatto in tempo a rientrare che la notizia era sulla bocca di tutti, e siamo corsi ad accendere la radio. Nessuno ha più lavorato, ci siamo trascinati fuori dagli uffici riversandoci in strada. Ricordo di essere tornato a piedi a casa quel giorno. Era pieno di sguardi increduli. E’ stata una giornata incredibile. Questa è l’America e nessuno spara al presidente”.

ROBERT DE NIRO, 70 anni
“E’ una di quelle esperienze che non si dimenticano, fu la prima volta che mi sono trovato davanti a qualcosa di così piu grande di me. Avevo vent’anni credo, e stavo sulla metro a New York. Improvvisamente tutti hanno cominciato a parlare di quello che era successo, e mi sono avvicinato per ascoltare. E’ stato un colpo durissimo”.

KATHY BATES, 65 anni
“Nel ’63 avevo quindici anni. Ricordo che da scuola ci rimandarono a casa. Passai tutto il week end a guardare cosa era successo in televisione, i preparativi del funerale e le tantissime persone che andavano a portare a Kennedy l’ultimo saluto. Vidi in tv quando spararono a Oswald. Sono cresciuta con queste cose. E’ stata indubbiamente la fine della mia infanzia. La consapevolezza che una persona che stava facendo del bene al paese potesse essere assassinata era impensabile per me fino a quel momento. Ho ricordi più vividi di quando venne ucciso Martin Luther King, cinque anni dopo, nella mia città natale, Memphis. E dopo ancora Bobby Kenndey, ero in California in quel periodo, avevo appena iniziato a lavorare in una compagnia teatrale  ma mi era andata male e proprio allora lui vinse le elezioni e il giorno dopo venne ucciso. Fu un brutto momento”.

JOHN GOODMAN, 61 anni
“Ricordo che mi avevano cacciato fuori dalla classe ed ero andato su in presidenza. Proprio quando sono entrato in ufficio è arrivata la notizia da Dallas che avevano sparato al presidente. Sono sceso di corsa giù per le scale e ho riportato la notizia alla classe. Abbiamo preso un vecchio televisore e siamo andati avanti così per il resto della giornata. Ricordo persone piangere. Ero troppo piccolo per apprezzare la gravità della situazione ma ricordo aver sentito quel senso di vuoto. Quando ero piccolo avevo scritto una lettera al presidente e mi era ritornata indietro una lettera dalla segreteria, avevo otto o nove anni. Avevo scritto di politica estera, (ride) di cosa ne pensava della presenza di Mao al confine Sovietico… e Cuba, avevamo profondamente parlato di Cuba, me lo ricordo”.

ANTHONY HOPKINS, 75 anni
“Lavoravo al Leicester Phoenix Theater, in uno spettacolo di Bernard Shaw chiamato Major Barbara. Avevo uno strano ruolo, un produttore di munizioni, strane battute… ma non mi soffermerò su questo. Ci stavamo preparando per andare in scena e il direttore di scena, intento ad ascoltare una radiolina ci dice “Credo che hanno sparato al presidente Kennedy. ‘Cosa?’ ‘Si’. Stava lì, fermo in un angolo cercando di prendere il segnale. Alcuni attori vanno in scena, io non dovevo uscire per un altra decina di minuti e sono rimasto con lui. Poco dopo sentiamo  che era morto.  Nessuno del pubblico sapeva. Sono salito sul palco, ma non potevo dire nulla perché avevo parecchie battute. Poi è scattato l’intervallo e tutti sono venuti a sapere quello che era successo. Abbiamo finito lo spettacolo ma la metà degli spettatori era andata via. Fu un grande shock che accadeva 50 anni fa. Incredibile, mi sembra ieri. Ne parlai con altri attori al pub la domenica sera. Poi ci fu l’assassinio a Lee Harvey Oswald e pensai che erano tutti pazzi in America, quella era la mia visione del paese, c’era troppa violenza lì. Dopo ho capito che è un sintomo diffuso, purtroppo. Fu una tragedia mondiale. Il governo Inglese pianse la morte di Kennedy, eravamo alleati, eravamo sopravvissuti insieme alla crisi di Cuba, Kennedy era il nostro eroe. Qualche anno dopo, nel ’76, conobbi Jacqueline Kennedy ad una festa di funzionari per l’uscita di  Quell’ultimo ponte. Era con il figlio piccolo, John. E’ stato un momento commovente”.

JAQUELINE BISSET, 69 anni
“Certo che me lo ricordo, ero a Parigi, a una cena in compagnia di amici di famiglia. Rimanemmo tutti scioccati. Volevamo qualche informazione in più, ma non riuscivamo a parlare. Anche il giorno dopo ricordo un gran silenzio per le strade, le persone erano cupe e spaventate”.

CHIWETEL EJIOFRO, 36 anni
“L’omicidio di Martin Luther King e di John F. Kennedy sono stati due eventi tragici in un’era di assassinii che ha anche incluso Malcolm X e Robert Kennedy. Dopo c’è stata la corrente guerrafondaia, la guerra in Vietnam e l’idea che tutti questi eventi possano essere collegati fra loro. Alcuni di questi assassinii sono stati attribuiti a problemi razziali, altri legati alla minaccia del comunismo, ma credo che si tratti  della stessa cosa. Quando persone con  idee basate sulla correttezza e sull’uguaglianza diventano troppo potenti, si tasformano in una minaccia per il sistema”. 

Fonte:www.repubblica.it


25 Aprile 2013

Cent’anni di innovazione in metà del tempo. È questo il motto con cui Lamborghini festeggia quest’anno il suo 50esimo anniversario. Mezzo secolo di sfide sotto il segno del Toro e dell’eccellenza motoristica, dalla mitica Miura all’ultima richiestissima Aventador, da poco disponibile anche in edizione Roadster, passando per Urraco, Countach, Jalpa, Diablo, Murciélago, Gallardo, Reventón. Supercar che sfileranno in una corrida di 1.200 chilometri attraversando mezza Italia la seconda settimana di maggio, in occasione del “Grande Giro Lamborghini 50° anniversario”.

Oltre 350 vetture da tutto il mondo che partiranno il prossimo 7 maggio a Milano, faranno tappa a Forte dei Marmi e a Roma e arriveranno a Bologna il successivo venerdì. Con un gran finale sabato 11 maggio a Sant’Agata Bolognese, il comune di neanche 7mila anime nella pianura bolognese che dal 1963 dà linfa al marchio e al sogno creato da Ferruccio Lamborghini.
“Ancora oggi sono le nostre radici locali e i nostri lavoratori il valore aggiunto di un mito che tutto il mondo ci invidia ed è al fortissimo legame con il territorio che dobbiamo il successo di un simbolo del lusso made in Italy sintesi di artigianalità, design e innovazione tecnologica”, sottolinea il numero di Automobili Lamborghini, Stephan Winkelmann, presentando oggi a Bologna, assieme al sindaco Virginio Merola, le iniziative per festeggiare il primo mezzo secolo di storia del casa Toro che fa parte del Gruppo Volkswagen, sotto l’egida di Audi.

Un connubio motori-città che affonda nel passato ma che sarà rinnovato in grande stile venerdì 10 maggio, all’arrivo della corsa: palazzi storici, torri, negozi del capoluogo saranno aperti fino a tarda notte; 150 ristoranti offriranno menù e materiali a tema; un concorso d’eleganza in Piazza Maggiore incoronerà la più bella quattro ruote del Toro mentre nel cortile d’onore del Comune sarà esposta la Lamborghini Aventador, la supersportiva dal motore V12 più estrema della casa automobilistica. Il compleanno proseguirà con l’apertura nella lussuosissima Galleria Cavour di una boutique monomarca e, da novembre, con la parata nel nuovo ingresso dell’aeroporto di Bologna di due vetture Lamborghini, una storica e un nuovo modello.

“Un’occasione unica di promozione della nostra città metropolitana a livello internazionale attraverso vetture meravigliose che qui nascono ma che sono nostre ambasciatrici nel mondo da 50 anni”, ricorda Merola.
“Le Lamborghini non sono auto, sono opere d’arte”, commenta il sindaco di Sant’Agata Bolognese, Daniela Occhiali ringraziando l’azienda, oggi gruppo Volkswagen, per la fedeltà al territorio e “per non essersi mai accontentata”.

Una sfida costante che ha portato la fabbrica bolognese dai 10mila metri quadrati del 1963 agli attuali 60mila mq, le supercar da poche unità alle 2.083 vendute l’anno scorso. “Solo negli ultimi dieci anni – aggiunge Winkelmann – siamo cresciuti da 400 a mille collaboratori, con più di 60 persone inserite nel 2012, 30 nuovi contratti a tempo indeterminato firmati a marzo e altrettante saranno le assunzioni da qui a fine anno, soprattutto nel centro ricerca e sviluppo e nel reparto produttivo”. n exploit da leggere sotto la lente di oltre il 10% del fatturato – 469 milioni di dollari nel 2012, +45,7% in un anno – investito ogni anno in R&S. “Percentuale che è il doppio della media dell’industria automobilistica”, nota Winkelmann.

Le previsioni per questo 2013 sono in chiaroscuro, dopo un anno di crescita straordinaria: +30% di supercar vendute nel mondo e una tenuta anche nell’emorragico mercato italiano, dove le consegne totali di vetture sportive sono crollate dalle 2mila unità del 2008 alle 400 dello scorso anno. “Di queste 400, 69 arrivano dal nostro stabilimento di Sant’Agata Bolognese, un dato stabile sul 2011 e in netta controtendenza grazie agli ordini della Aventador – aggiunge l’amministratore delegato – modello che da oltre un anno registra vendite eccezionali in tutti i 50 Paesi in cui siamo presenti.

Complessivamente il primo trimestre è in linea con quello dello scorso anno, Canada e Usa stanno andando meglio del previsto, Sud-Est asiatico e Medio Oriente corrono, ma in Europa sono più ombre che luci, come in Cina, nostro secondo mercato (15% dei volumi totali), dove tra concorrenza crescente e dazi sempre più alti non prevediamo aumenti di vendite”.
Ma il sogno di Ferruccio Lamborghini e la sfida del Toro al Cavallino Ferrari (e non devo dire io chi, tra i due, è l’animale più forte”, ironizza l’ad) continua. Per esempio con la nuova Aventador Roadster e con la three-off Veneno, estrema sperimentazione della biposto V12, presentato all’ultimo Salone di Ginevra, tre esemplari da 3,6 milioni di euro (più Iva) già venduti.

Ancora da definire invece il destino di Urus il suv sportivo che nei piani sarebbe dovuto diventare il terzo modello il terzo modello della casa bolognese, dopo Aventador e Gallardo. Presentato lo scorso anno al salone di Pechino in veste di concept, non si è più palesato in alcuna rassegna internazionale, come per esempio il salone di Shanghai in corso in questi giorni dove è stata, invece svelata, una Aventador in tiratura limitata battezzata non a caso “50”, una serie speciale della supercar del toro prodotta in 100 esemplari con V12 potenziato

Fonte:www.motori24.ilsole24ore.com


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